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Servono 43mila agroalimentari. La scuola ne sforna appena 244


Innovazione e tecnologie digitali stanno investendo anche l’industria alimentare, il secondo settore manifatturiero italiano, con un fatturato annuo di oltre 132 miliardi di euro, l’8% del Pil nazionale. Nei prossimi cinque anni, le imprese del comparto stimano un fabbisogno occupazionale di 43.540 unità; il 7% (oltre 3mila persone) sono profili laureati (in materie economico-commerciali, scientifiche, ingegneristiche e giuridiche) o diplomati Its. Oltre 11.600 posizioni dovranno possedere il titolo di istruzione secondaria superiore, mentre per le restanti 28.830 sono richieste qualifiche professionali. Tutti, o quasi, dovranno possedere competenze sempre più specialistiche: digitali, utili più che mai per le certificazioni, tracciabilità/rintracciabilità di filiera, transazioni online (blockchain, valuchain).

Anche nel comparto alimentare molte aziende dovranno fare i conti con il mismatch, visto che circa un terzo delle assunzioni preventivate si annunciano già di difficile reperimento per carenza di candidati giusti a causa del divario, che a livello nazionale si sta allargando, tra competenze reali possedute dal lavoratore e competenze effettivamente richieste dalle imprese.

Il tema chiama in causa soprattutto la formazione. Negli istituti tecnici superiori frequentati da circa 13mila studenti, nel 2018 appena 244 erano iscritti all’area agroalimentare (di cui 47 si sono ritirati). Un numero assolutamente distante rispetto ai fabbisogni occupazionali del comparto.

I profili che servono, da qui al 2023, sono esperti di sviluppo commerciale e marketing, ingegneri ambientali, esperti di legislazione alimentare, tecnologi alimentari, nutrizionisti, analisti del gusto. Quasi il 60% dei nuovi ingressi è previsto nel Nord Ovest (29,6%) e nel Nord Est (28,8%). A seguire Centro (14,7%), Sud e Isole (26,9%).

«L’industria alimentare è un settore ad alta intensità occupazionale, che ha confermato negli anni la sua preziosa forza stabilizzatrice e anticiclica - racconta Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare -. Sono 385mila gli occupati delle 58mila imprese del food and beverage nazionale, delle quali 6.845 con oltre 9 addetti: il 43% è impegnato nella produzione; il 22% nel controllo e gestione di qualità e sicurezza; il 19% nel commerciale; il 9% in logistica e magazzino; il 7% in amministrazione e finanza. Questa struttura occupazionale rispecchia le esigenze di un’industria export oriented, fortemente interessata all’affermazione di modelli di produzione e di consumo sostenibili, che investe l’8% del fatturato in ricerca e innovazione per rispondere alle nuove sfide e alle principali tendenze di consumo, nel rispetto dei valori tradizionali del Made in Italy alimentare».

L’avvento del 4.0, però, richiede livelli superiori di competenze, che spesso si fanno fatica a trovare. «Per lavorare nel nostro comparto c’è bisogno anche di conoscere l’inglese - aggiunge Cristina Di Domizio, responsabile innovazione e formazione continua di Federalimentare - di capacità di problem solving, di organizzazione autonoma e di lavoro in team. Affianco delle competenze più professionali legate alla conoscenza della filiera produttiva alimentare: dalla selezione della materia prima alla prima trasformazione, dal semilavorato alla seconda trasformazione, fino al confezionamento del prodotto finito e la distribuzione». Il solo 4.0 richiederà competenze interdisciplinari necessarie a supportare l’innovazione continua, di prodotto e di processo, perseguita dal settore: si spazia dalle tecnologie innovative (nanotech, biotech, micro e nutraceutica, soft processing, energie rinnovabili); ai modelli innovativi (necessità del consumatore, nuovi sistemi di organizzazione e di distribuzione); passando per i design innovativi (imballaggi, ingredienti e ricette, gusto e colori, shelf-life, convenience e ready-to-eat, nuove qualità).

Per limitare i danni causati dal mismatch, le imprese alimentari stanno correndo ai ripari. Federalimentare ha sottoscritto con il Miur un accordo per diffondere l’educazione alimentare in classe; per prevenire gli abbandoni scolastici puntando sull’alternanza scuola-lavoro (che oggi il governo Conte sta smontando, ndr); e per definire linee programmatiche nelle politiche nazionali di ricerca e innovazione, grazie anche al supporto del Cluster Tecnologico Nazionale Agrifood. «Stiamo promuovendo una stretta collaborazione con il mondo accademico e con gli Its per favorire lo sviluppo di una forte sinergia tra attività didattica e mondo produttivo - aggiunge Vacondio - con l’obiettivo di formare competenze che rispondano alle esigenze effettive del settore, contribuendo in modo significativo alla sua crescita. Riteniamo fondamentale puntare sui programmi di formazione professionale continua nelle aziende e sulle politiche attive del lavoro che consentano ai lavoratori di adattarsi ai cambiamenti in atto nel settore». Un ruolo lo gioca il fondo interprofessionale Fondimpresa, con piani ed azioni formativi ad hoc a vantaggio soprattutto delle Pmi.